“Io amo la cucina come pura forma d’arte.

La mia ora X è scattata quando, amando da sempre la musica, mi sono messo a studiare pianoforte, per tre anni, con l’insegnante che sarebbe diventata mia moglie.

Ho capito, solo allora, che avrei dovuto concentrami in modo nuovo sulla cucina.

È stata la musica a comunicarmi il fermento, lo slancio indispensabile a crescere oltre il semplice apprendimento di un mestiere.”

Gualtiero Marchesi

La vita di Gualtiero Marchesi e la cucina italiana.

di Alberto Capatti, storico della cucina

La sua biografia, la vita sentimentale e familiare, la cucina totale, filosofia e pratica, e persino il suo codice gastronomico da offrire ad allievi e lettori, Gualtiero ha messo tutto per iscritto alla fine di una lunga carriera.
Marchesi si nasce. Questa è la mia storia è pubblicato nel 2010, a ottant’anni, e sgombra il campo da ipotesi sulle sue origini, sul suo viaggio in Francia, sull’apertura del ristorante in via Bonvesin de la Riva a Milano. Lo assiste Carlo Valli, docente di marketing e comunicazione. Perché raccontarsi? Perché un cuoco conosciuto in tutto il mondo deve respingere illazioni e pettegolezzi, mettendo per iscritto la sua vita sino all’apertura, nel locale già “Biffi Scala”, del “Marchesino”, che segna il suo ritorno, nel 2008, a Milano, in un edificio famoso per la musica e celebrato dalla sua cucina.
La famiglia Marchesi aveva aperto l’“Albergo Mercato” in via Bezzecca ottant’anni prima, trasformandolo in un luogo di ristoro per gli ortofrutticoli che operavano nella grande area vicina. Di origine pavese, aveva investito i propri averi in un ambito che consentirà al giovane Gualtiero di scegliere un futuro, formandosi. Dopo cinque anni di guerra, passati nella terra d’origine, la famiglia riprende l’“Albergo” e vedendo il figlio attratto, più che dall’Istituto Feltrinelli, dalla ristorazione, lo “spedisce” al famoso “Hotel Kulm” di St. Moritz per uno stage, poi due anni a Lucerna, dove frequenta una scuola commerciale, imparando francese e tedesco, e l’anno successivo in una scuola alberghiera per seguire corsi di sala e di cucina.

Al ritorno, lavora nell’albergo di famiglia, tavola calda e fredda di giorno e ristorante la sera. Marchesi comincia a studiare i piatti da offrire e inizia un percorso di ricerca, limitato ovviamente dal locale e dalla cultura stessa della sua clientela. Prende lezioni di pianoforte e sposa la sua insegnante, Antonietta Cassisa. Abbandona lo strumento musicale e si dedica completamente alla cucina. Milano propone le proprie specialità e, in alcuni ristoranti del centro, piatti francesi; del resto, all’“Albergo Mercato” il Filetto alla Rossini era offerto da Gualtiero. Nel 1966 «il ‘Mercato’ chiuse. Doveva chiudere. Il Comune, proprietario del locale, non volle rinnovarci il contratto d’affitto». Per Gualtiero questa fu l’occasione di riesaminare il proprio futuro, viaggiando, cominciando da Parigi, epicentro della cucina mondiale, da uno stage in un ristorante di culto: il “Ledoyen”. La Francia viene percorsa a rovescio, dalla capitale, in fermento – siamo nel 1968 –, alla provincia, prima a Dijon e poi a Roanne, dai fratelli Troisgros. Qualche anno dopo il loro ristorante verrà considerato, con 3 stelle, uno dei fulcri della nouvelle cuisine. Il ritorno a Milano è segnato da questa nuova luce aperta dalla Francia, anzi da Roanne, sulle cucine europee, con nuove regole, rivoluzionarie: «i prodotti freschi di giornata», quindi «una maggiore semplicità nelle preparazioni» e ovviamente la scomparsa di salse troppo elaborate. Comincia l’estenuante ricerca di un locale, con l’amico Medagliani, commerciante di forniture alberghiere, promotore di libri, in particolare della Cucina pratica di Borrini, nelle tre edizioni 1938, 1953, 1960, e suo sponsor. Verrà trovato in un «ristorante pizzeria che di nome faceva ‘Okay’» in via Bonvesin de la Riva, non lontano da quello che era stato l’albergo di famiglia.

Dai tavoli alle luci, dalle cucine ai frigoriferi, tutto verrà studiato accuratamente, secondo un’idea complessiva della cucina che comprendeva ogni aspetto, dalla forma e colore del piatto al tavolo, alle luci, e nel 1977 il ristorante viene inaugurato. In pochi anni saranno creati i piatti icone della cucina marchesiana: Riso, oro e zafferano, il Raviolo aperto, le Seppie al nero, e piovono le stelle Michelin. Mangiare i colori, la luminosità di un piatto, non si era mai visto, e Gualtiero apre una nuova via, solleticando la curiosità, educando il cliente, promuovendo la nuova cucina italiana. A supporto, nel 1980 pubblica da Rizzoli La mia nuova grande cucina italiana, prima ricetta il Bouquet guarnito, che quattro anni dopo viene tradotta in francese dall’editore Robert Laffont con il titolo La cuisine italienne réinventée.
Reinventare la cucina italiana non è atto politico, al fine di offrire un modello ripetibile, vendibile ovunque, ma è anzitutto studiare a fondo ingredienti e pentole e fonti di calore, concretizzandoli ogni volta in un oggetto commestibile che, a sua volta, implica la scelta precisa di un piatto, bianco o colorato, e la lampada sopra il tavolo, e lo sguardo interrogativo o rapito del cliente. Con questi enigmi, l’oro alimentare in un risotto milanese, l’apertura di un raviolo e i suoi segreti, Marchesi crea un metodo che riunisce cuoco e cliente in un gioco delle parti, riservandosi quella dell’artista. Per un pubblico d’occasione, quello di alcuni giornalisti milanesi venuti nel suo locale a conoscerlo, ad ascoltarlo, il piatto offerto sarà dei più semplici, una cassoeula servita su una grande foglia di verza verde, d’una bellezza inconfondibile.

Gioco delle arti, la cucina di Marchesi affascina una Milano in cui la cultura alimentare rifioriva, nel 1982, grazie alla rivista mensile “La Gola”, impaginata ed edita da Gianni Sassi, che raccoglieva collaboratori d’ogni sorta e faceva dell’innovazione un obiettivo mirato. Niente giornalisti, ma scrittori determinati a conoscere, attenti a quanto è inconsueto. La moda e il design cominciano a condizionare l’approccio alla cucina stessa, e Luigi Veronelli, nel 1983, fonda e dirige il periodico “L’etichetta”. I piatti di via Bonvesin de la Riva apparivano un nuovo linguaggio artistico destinato a trasformare la distanza dal cibo, coinvolgendo industria e marketing di cui operatore di ampie vedute era Luca Vercelloni che con Gualtiero Marchesi, nel 2001, pubblicherà da Laterza La tavola imbandita. Storia estetica della cucina. Un filo conduttore vi era tracciato, dal banchetto rinascimentale a un Astice alla crema di peperoni dolci del Maestro, introducendo una chiave storica nella lettura del piatto, valorizzando un patrimonio italiano che non aveva nulla da invidiare a quello francese. Le discipline meno familiari a un giudizio stellato venivano così ad arricchire quella che era un’avanguardia culinaria, che si trovava ad assorbire non solo pittura e musica, ma marketing e storia.
Singoli clienti di Marchesi avevano portato in sala la loro cultura, ma ora si trattava di inventare una cucina totale non solo come la intendeva Gualtiero, nel proprio ristorante, ma in una Milano in cui l’alimentazione contava operatori d’ogni sorta, e meritava una riflessione interdisciplinare. I passi di Marchesi, imprevedibili, restano conseguenti alla sua visione delle cucine.

Nel 1989 esce da Mondadori La cucina regionale italiana. È una sorpresa per chi lo immaginava osservare il piatto di Riso, oro e zafferano pronto da servire, e vi trova invece un Risotto alla milanese senza la foglia d’oro, ma con il riso steso a velo sul piatto. Sfogliando poi i capitoli divisi per regioni, incontra Bucatini all’amatriciana con questa premessa: «Mi piacciono molto. Saporiti e gagliardi, sono il piatto ideale da gustare con gli amici alla fine di un’allegra serata». Meglio ancora gli Spaghetti alla carbonara quando da buon milanese avanza: «il guanciale può esser sostituito dalla pancetta» ravvedendosi subito con: «certo, ma non è la stessa cosa». Con La cucina regionale italiana, Marchesi entra nelle case, discute con chi spadella, consiglia il meglio, con cautela. Il cuoco stellato può permettersi di recitare diversi ruoli, di abbandonare Bonvesin de la Riva e di entrare in casa di un amico, di aiutarlo, sedendosi poi a tavola con lui. Marchesi vede un’Italia in cui la cucina di casa è un patrimonio prestigioso e rappresenta, solo apparentemente, l’antitesi della sua, creativa, artistica. Decide quindi di appropriarsene, giocando con i termini stessi degli ingredienti, presentando delle Orecchiette, broccoletti e foie gras in cui il foie gras è fegato d’anatra cotto in pentola e croccante. L’amico Troisgros non avrebbe faticato ad avallare questa accezione: «Ah! Ces italiens…».
La squadra è parecchio cresciuta e, a metà degli anni Ottanta, dispone ormai di 24 collaboratori, di cui 12 in cucina e 12 in sala. La gestione si fa sempre più difficile negli anni Novanta, e con lo scoppio di tangentopoli, nel 1992, Marchesi pensa «a un futuro diverso» e abbandona Bonvesin de la Riva.

Quali erano i ristoranti che meritavano un viaggio, la visita di un gourmet milanese? A Canneto sull’Oglio (in provincia di Mantova) c’era Nadia Santini e “Il pescatore” (3 stelle Michelin nel 1996). Dalla parte opposta, regnava, ad Ameglia, presso La Spezia, la “Locanda dell’Angelo” di Angelo Paracucchi. Volendo un tragitto più breve, si andava in automobile al “Sole” di Maleo (vicino a Lodi) da Franco Colombani «un personaggio di spicco della ristorazione italiana», diceva la Guida de l’Espresso 1992. Con il trasferimento di Marchesi in Franciacorta si aggiunge un nuovo traguardo, l’“Albereta” di Erbusco. Le guide non sempre faranno eco con entusiasmo, e l’Accademia Italiana della Cucina, nel 1999, scriverà: «Ristorante d’affari, in locanda relais, con sale per riunioni, piscina, parco e panorama». Il trasloco da Milano a Erbusco, finanziato dall’imprenditore Vittorio Moretti, non va quindi da sé, eppure la campagna, le viti, la calma, sono un nuovo teatro per l’animo di Gualtiero. Ma siccome per lui nulla è dato per scontato, continuerà a riflettere, anche in Franciacorta, su tutto, persino sugli abbinamenti vino-cibo, e ripensare a piatti accompagnati dalla sola acqua farà sempre parte del suo pensiero critico. A Milano alcuni allievi operano già in proprio e Pietro Leemann, locarnese, apre “Joia”, il ristorante vegetariano frequentabile oggi da chi vuol conoscere la genìa dei marchesiani. Pietro avrà per il Maestro un culto, fotografandolo e dandogli ancora la parola, nel 2016, per presentare il suo libro bilingue, italiano e inglese, I cuochi, con una crema di piselli con pesto di nocciole e schiuma di tartufo dal nome Omaggio a Gualtiero Marchesi.

Carlo Cracco invece è nei primi tre anni all’“Albereta” (1993-1996), per poi trasferirsi in Piemonte, a Piobesi d’Alba dove dirige “Le Clivie” e ritornare a Milano nel 2001, chiamato da “Peck” dei fratelli Stoppani chef del ristorante “Cracco Peck”. Anche lui decide di ristudiare il risotto, e ne consegnerà la ricetta in Sapori in movimento, edito da Giunti nel 2006, precisamente un Risotto allo zafferano con midollo alla piastra. La foglia d’oro è sostituita dal midollo posto al centro del piatto, e tutto è tondo. Andrea Berton è il terzo apprendista che menzioniamo, collocandolo, chef, al ristorante “Trussardi alla Scala”, nel 2005, proprio accanto a quel “Biffi” che diventerà “Il Marchesino”. Così vicini, non solo nelle cucine, è difficile immaginarli, in una piazza in cui Municipio e Teatro d’Opera si fronteggiano e in cui una medesima scuola d’arte e di pensiero offre mostra di sé. Gli allievi di Marchesi prendono le strade più diverse, coronati da anni di servizio sotto l’egida del Maestro. A Erbusco torna a lavorare Paolo Lopriore che lo sprona a rinnovare impegno e ricerca: con lui nasceranno piatti come Il rosso e il nero, salsa di pomodoro cruda e nero di seppia per una pescatrice. Il ricordo del titolo di un romanzo di Stendhal, Le rouge et le noir, aleggia inconsueto. Nel ristorante, la carta propone quattro menu di degustazione che suggeriscono tragitti gastronomici ben definiti: il menu della pasta, il vegetariano, il menu di tradizione, il creativo. E pure una carta dei formaggi, ognuno conservato in uno speciale frigorifero alla propria temperatura e umidità. Cucina totale e tradizionale si intersecano e non rallenta la riflessione su ogni piatto e sul suo contesto. Erbusco è piccola, ma ha un teatrino in cui attirare giornalisti e spettatori per un evento.

Gualtiero vi recita e poi viaggia, più volte in Giappone, portando ormai non solo i propri marchi, ma una avanguardia della cucina italiana costruita non per saziare, ma per consolidare un patrimonio che gli conferirà il ruolo di grande innovatore. Anche la Società Gualtiero Marchesi opera proprio in questa direzione, e dopo una vita passata a insegnare nella cucina di un ristorante, viene chiamato a presiedere ALMA, la nuova grande Scuola Internazionale di Cucina Italiana, insediata nella Reggia di Colorno.
Personaggio ormai leggendario, Gualtiero si concede libertà impensabili vent’anni prima, e offre la sua voce all’ispettore sanitario nel doppiaggio di Ratatouille di Walt Disney, o progetta per McDonald’s due panini, Adagio e Vivace, che verranno messi in vendita. Di panini, Gualtiero ne aveva preparati sin dagli anni Sessanta per i mercanti, e uno in particolare aveva avuto successo con pane imburrato, ventresca di tonno, cipolline sotto aceto e filetti di acciughe. Ma qualcosa lo assilla. Ripensa e detta pagine inedite della propria vita e, per gli amici, pubblicherà nel 2011 Mia moglie Antonietta, proprio colei che gli aveva insegnato il pianoforte, che era stata “abbandonata” con due figliole da un marito che voleva ritrovare una nuova via, una sua cucina in Francia, e a cui ripeteva, ormai vecchio: «Grazie amore per avermi donato la tua vita e due figlie così». L’evento che è maturato a Erbusco è tra i più sorprendenti. Ha ritrovato all’ “Albereta”, in Franciacorta, una base solida su cui gestire il presente e il passato, grazie all’ospitalità e all’aiuto del produttore di vino Moretti, e proprio perché si riconosce criticamente “il Maestro” e vede il successo dei suoi stessi allievi rifiuta le 3 stelle Michelin.

L’imprevisto sarà il ritorno a Milano in un locale nell’edificio stesso della Scala, che era stato il “Biffi Scala”. «Nel corso di un anno, al ‘Marchesino’ ho battezzato nuovi piatti come Carn’è pesce, una composizione a base di filetto di manzo e filetto di branzino accompagnati da tre salse, una maionese con senape, la seconda di pomodoro e la terza verde», racconterà nella sua biografia, fantasticando tanti “Marchesini” di cui uno soprattutto a Venezia, romantica città d’arte. Piatti e musica, con il piacere d’ascoltare «una versione inedita della Gagarella del Biffi Scala. Interpreti d’eccezione: io stesso e Stefano, alias ‘Elio’ di Elio e le Storie Tese».
Dopo Bonvesin de la Riva e l’“Albereta” non era il riflusso, ma una nuova vita, la giovinezza nella vecchiaia, pronta a studiare il rinnovato percorso, impensabile nelle sue premesse. A suggello, un libro: La cucina italiana. Il Grande Ricettario, pubblicato da De Agostini nel 2015, con ricette dell’Accademia Gualtiero Marchesi e di Fabiano Guatteri.
L’omonima Fondazione da lui creata ha ricevuto questo lascito, dopo la sua morte avvenuta nel 2017. Gualtiero continua così a ispirare le moderne cucine, grazie ai suoi allievi, illuminando di idee impensabili una cultura italiana che ha un epicentro, Milano, sempre nella stessa Bonvesin de la Riva, un ristorante all’interno del “Grand Hotel Tremezzo” e opera in tutto il mondo. Piatti e musica, immagini e arte, non si erano mai avvicendati, così nelle case come nei locali, prima di lui, e il futuro ha ora un disciplinare di ricette ed eventi, da arricchire con la sua memoria. Nasceranno quaderni, come quello pubblicato dalla Fondazione dal titolo Italia-Francia e mostre con il suo volto e i suoi attrezzi e i suoi piatti e icone come Riso, oro e zafferano, che da cinquant’anni ritorna sotto i nostri occhi e sparisce nella nostra bocca. Che un genio fosse nato nell’“Albergo Mercato” pare quasi incredibile, eppure lo sentiamo rinascere in noi, che tentiamo di studiarne la vita, comprendendo che la cucina italiana non è mai la stessa. Anche io, studioso di Artusi e storico del presente, vado cercando idee, illuminazioni, ascoltando la sua voce che mi ispira con parole semplici, “riso”, “raviolo” o “seppia”, con indovinelli, Carn’è pesce, con un approccio sempre nuovo, inimmaginabile senza la sua onnipresenza. Questo mio resoconto biografico mi mette ora alla prova e lo chiudo lasciando ad altri, ai lettori, una conclusione.

La sua storia, anno per anno

La sua filosofia